RumorExtra
Flavia Restivo, politologa e attivista, racconta perché la Svezia sia un modello nell’educazione sessuo-affettiva nelle scuole: l’Italia non può più aspettare.
Gimme! Gimme! Gimme! Sex Education
di Sofia Centioni
Flavia Restivo è attivista politica, divulgatrice e autrice del libro “Gli svedesi lo fanno meglio. Come un'educazione affettiva e sessuale di stampo nordico può cambiare il nostro Paese (in meglio)”, edito da Rizzoli. È tra le principali promotrici in Italia della necessità di introdurre l’educazione sessuo-affettiva nelle scuole, con il progetto Italy Needs Sex Education.
Restivo, a marzo uscirà il suo libro, “Gli svedesi lo fanno meglio”. Da dove è nata l’esigenza di scriverlo?
“Gli svedesi lo fanno meglio” è frutto di un lavoro di divulgazione che svolgo ormai da dieci anni sul tema dell'educazione affettiva. Nel tempo mi sono resa conto di quanto una corretta educazione sessuo-affettiva avrebbe potuto fare la differenza nella mia vita – e lo stesso vale per migliaia di altre persone come me. Avere dei punti di riferimento con cui parlare non solo di sesso dal punto di vista riproduttivo o preventivo, ma anche di questioni legate alle relazioni, al consenso e più in generale ai bias di genere che abitano la nostra società avrebbe rappresentato un sostegno non indifferente durante la fase della crescita. Da qui è nata l’esigenza, non solo da parte mia, ma anche delle persone accanto a me.
Come mai parla proprio di Svezia?
Innanzitutto, parlo di Svezia perché è stato il primo Paese in tutto il mondo a introdurre l'educazione sessuo-affettiva come materia obbligatoria, nel 1955. E credo si tratti di un primato molto importante, dato che la Svezia spesso è considerata secondaria nella scena delle potenze mondiali. Dovremmo invece renderci conto di essere 70 anni in ritardo, dal momento che questo modello ha dimostrato di avere tanti vantaggi: l'introduzione dell'educazione sessuo-affettiva ha portato la Svezia ad essere uno dei Paesi che ha minor disparità di genere al mondo.
Un secondo elemento è che mia nonna materna è napoletana, mentre quella paterna è tedesca-svizzera. Per questo, sin da piccola ho percepito la differenza tra il Nord e il Sud dell'Europa per quanto riguarda le tipologie di educazione. E poi, devo dire che ho sempre avuto un legame con la Svezia: sono praticamente cresciuta con le canzoni degli Abba.
In cosa consistono gli insegnamenti nelle scuole svedesi, nello specifico?
Per prima cosa, è bene dire che in Svezia l'educazione sessuale parte sin dai primi livelli di istruzione, quindi parliamo di scuole materne e bambinə che hanno tra i 2 e i 5 anni.
Nella prima fase lə bambinə sono molto piccolə, perciò si parla di come è fatto il corpo umano spiegando cosa sia il sesso biologico, cosa siano i genitali, cosa siano le molestie e come eventualmente proteggersi. Di fatto, ciò che viene insegnato è quindi il rispetto dell'altrə e, soprattutto, il consenso e la privacy, che sono concetti cruciali per imparare a proteggere noi stessə. Il programma cambia poi nel passaggio da un livello scolastico a un altro. Alle scuole medie e al liceo si parla di sesso in quanto relazione intima e affettivita, affrontando gli aspetti della vita legati alle relazioni e ai temi di genere.
Secondo lei, che impatto ha questa educazione sulle vite dellə bambinə a livello pratico?
Penso che capire che il tuo corpo è soltanto tuo e che nessunə ha il diritto di toccarlo aiuti a riconoscere eventuali molestie, soprattutto nellə bambinə piccolə. E questo, di conseguenza, permette ai genitori di intervenire. In generale, avere già nei primi anni di vita la consapevolezza che alcune cose sono sbagliate e che esiste il rispetto dei confini personali – assimilando il concetto del consenso – aiuta a crescere con una mentalità più consapevole.
Tra l’altro, questo modello incide sulle politiche relative alla natalità: è dagli anni Sessanta che in Svezia lə bambinə crescono con due genitori che svolgono gli stessi ruoli. Il congedo parentale, per esempio, è uguale sia per i padri che per le madri e, più in generale, l'idea che la donna abbia certi compiti e l'uomo altri è superata. Il tempo che lə figliə passano con i genitori è lo stesso. In questo modo, anche grazie a ciò che imparano a scuola, le donne non sentono così forte il peso della maternità, perché sanno che non sarà tutto sulle loro spalle.
Raccontava prima di avere una nonna napoletana da parte di madre e una svizzera-tedesca, da parte di padre. Può raccontarci qualche differenza nella loro educazione?
Certo. La nonna paterna si è trasferita a Roma da Basilea, a diciott’anni, per fare la ragazza alla pari per una contessa. Quando ha deciso di restare ha sempre mantenuto la possibilità di fare avanti e indietro tra l'Italia e la Svizzera, viaggiando da sola o con le amiche: già a vent’anni aveva una libertà che sarebbe stata impensabile per una donna cresciuta a Napoli negli anni Quaranta o Cinquanta.
La mia nonna materna, al contrario, mi racconta che quando usciva doveva farsi sempre accompagnare dal padre, o comunque da qualche uomo della famiglia. Sono due vite completamente diverse; mi ha sempre colpita che una fosse libera di muoversi come lo sono io oggi, mentre l’altra dovesse farsi accompagnare o chiedere il permesso per qualsiasi cosa.
Negli ultimi anni si parla sempre più spesso di malattie come vulvodinia e endometriosi. Crede che una corretta educazione sessuo-affettiva potrebbe aiutare le ragazze a riconoscere prima certi disturbi?
Sì, assolutamente. Io, per esempio, sono malata di vulvodinia e di fibromialgia – due malattie quasi totalmente femminili. Già solo per questo motivo sono malattie che, di per sé, vengono sottostimate, perché il corpo femminile non si studia come quello maschile. Tanto che se ne sa ben poco ancora oggi.
In generale, il corpo femminile è sempre stato circondato da grandi tabù, e lo è tutt'ora. Mi ricordo che tra le mie amiche si parlava pochissimo, se non per niente, di masturbazione. Lo stesso valeva rispetto all’importanza di andare dalla ginecologa già da più piccole, quando non è raro che possano emergere le prime problematiche.
C’è una disinformazione dilagante su tutto ciò che ha che fare con il corpo femminile: è per questo che sapere dell'esistenza di queste malattie e conoscere il funzionamento del proprio corpo già dal periodo scolastico sarebbe un grande aiuto.
Sarebbe essenziale anche, banalmente, far capire alle donne che dolori o disturbi spesso sono il sintomo di qualcosa, e non vanno normalizzati. Questo significa non sottovalutarli e cercare specialistə competenti, nonostante in Italia sia molto difficile e si debba aspettare anni per avere una diagnosi corretta.
Per quanto riguarda la masturbazione, invece, crede che ciò di cui abbiamo parlato finora abbia contribuito a renderla un’esperienza percepita più come “maschile” che “femminile”?
Credo di sì. Personalmente, ho sempre avuto molte problematiche rispetto alla masturbazione: non ne sapevo nulla, non conoscevo bene il mio corpo e mi sentivo anche in colpa a farlo. Questo perché se ne parlava pochissimo e la maggior parte di noi è cresciuta in un ambiente cattolico che ti insegna che il corpo e il sesso sono funzionali solo alla procreazione. E poi, comunque, anche chi non cresce in famiglie particolarmente cattoliche vive e respira in una società che ha questo approccio.
Può fare alcuni esempi?
La maggioranza dellə bambinə va a catechismo. Ma, banalmente, basta accendere la televisione per rendersi conto che il messaggio trasmesso è spesso di stampo cattolico, e che le donne sono la categoria più colpevolizzata di tutte.
Tornando al passato, la nonna napoletana mi raccontava che il giorno dopo la prima notte di nozze, per esempio, le donne dovevano dimostrare di essere state vergini fino ad allora, mentre questo requisito ovviamente non era previsto per un uomo.
Certo, oggi non è più così; ma si tratta comunque di una pratica non troppo antica, che rappresenta un retaggio che ha influenzato le nostre madri e, di conseguenza, le giovani generazioni.
All’inizio ha accennato al suo lungo percorso da attivista. Da poco ha lanciato una nuova campagna, Italy Needs Sex Education.
Sì, da ottobre 2024. Siamo riuscitə a raccogliere e mettere insieme moltissime associazioni, collettivi ma anche vari brand di nicchia che si impegnano tutti i giorni per sensibilizzare su questi temi. Lo scopo è costruire spazi di divulgazione non solo nelle grandi città, ma anche sul resto del territorio nel modo più capillare possibile. Attualmente abbiamo una community su WhatsApp di 350 persone, che a sua volta è suddivisa in moltissimi sottogruppi regionali. Secondariamente, che poi è anche il passo più importante, vorremmo far passare un progetto di educazione sessuo-affettiva a livello nazionale. Per far questo, però, speriamo che cada prima questo Governo, perché non pensiamo di poter in alcun modo interagire con quello attuale.
Quali sono le difficoltà che incontra chi si cimenta in questo tipo di divulgazione?
Il fatto che in Italia – come in molti altri Paesi – ci sia la destra al governo sicuramente non aiuta. Io, come moltə altrə, utilizzo anche i social per arrivare a più persone, e attualmente stanno cambiando moltissimo le metriche: quando mi capita di parlare di argomenti scomodi, come la Palestina o l'educazione sessuale, vengo quasi sempre oscurata dai social. Alla nostra pagina accade spessissimo: anche semplicemente il fatto di chiamarci Italy Needs Sex Education è uno “svantaggio”, perché Instagram intercetta la parola “sex” e automaticamente la butta giù.
Allo stesso tempo, però, mi rendo conto che abbiamo creato una nicchia molto ampia di persone, e questo mi rende molto felice. Mi sembra anzi che, proprio grazie a questa ondata repressiva, sia in atto una specie di risveglio delle coscienze. È come se arrivare a livelli così imbarazzanti e raccapriccianti fosse l’unico modo per fare un reale passo verso il futuro. La percezione è che la sinistra di questi anni non abbia mai fatto abbastanza: sembra quasi che ritrovarsi la destra al governo abbia permesso di fare finalmente opposizione – o, almeno, di provarci.
Non te ne andare, anche per questa uscita extra ci siamo segnate qualche suggerimento per te.
I consigli di Cronache di rabbia:
Black Box Diaries, il documentario della giornalista giapponese Shiori Itō, candidato agli Oscar di quest’anno, è un racconto autobiografico che analizza l’inchiesta giudiziaria relativa allo stupro subito dalla regista.
Assistenza sanitaria raffazzonata e personale stanco: Planned Parenthood è in crisi, di Katie Benner per “The New York Times”. La giornalista fa un quadro sullo stato attuale dell’Ong statunitense che se per decenni ha garantito l’accesso all’aborto e standard di assistenza invidiabili, ora si trova in ginocchio in molti Stati federali.