Rumore #9
Inauguriamo l’inizio del nuovo anno - perché si sa che la vera ripartenza è quella settembrina - per parlare di rappresentazione mediatica, intelligenza artificiale e... api!
Di rappresentazione mediatica e autorappresentazione
di Nikol Ceola
È stata un’estate letteralmente di fuoco. Le maxi inchieste relative ai siti sessisti chiusi dopo anni (e decenni) di attività hanno lasciato scioccato il mondo dell’informazione italiana, mentre altre hanno avuto quel contraccolpo che succede quando sai cosa c’è dall’altra parte, ma non lo sai mai abbastanza fino a che non lo vedi.
Cronache di rabbia ricomincia allora parlando di autodeterminazione e rappresentazione, soprattutto quella mediatica. Per la ripartenza settembrina abbiamo intervistato la giornalista femminista Barbara Bonomi Romagnoli. Abbiamo parlato insieme a lei dell’annosa e sempreverde questione della rappresentazione femminile delle donne in ambito mediatico, ma anche delle nuove sfide introdotte dall’intelligenza artificiale. Barbara Bonomi Romagnoli - che utilizza sia il cognome materno che quello paterno per scelta politica - è però anche un’apicoltrice. Le abbiamo chiesto di parlarci anche del mondo delle api, da cui possiamo imparare molto, soprattutto se evitiamo di antropizzarlo.
Siamo un gruppo di giornaliste indipendenti che stanno particolarmente attente alla rappresentazione mediatica: lei ha studiato come i media veicolano gli stereotipi di genere e ha fatto parte del gruppo “Donne e media” di Agcom. Come valuta oggi l’evoluzione di questa rappresentazione? Cos’è cambiato e cosa resta urgente?
«La rappresentazione mediatica dei corpi femminili, lgbtqia+ o comunque non conformi alla cultura dominante è ancora portatrice sana di stereotipi di genere. I media riproducono una realtà in cui ancora oggi, sul piano simbolico, c’è ancora un uso sessista e non sessuato del linguaggio, modelli di donne che arrivano in ruoli apicali facendosi chiamare al maschile per ‘contare’ di più - pensiamo alla prima presidente del consiglio del nostro paese – oppure pensiamo all’educazione delle giovani generazioni dicendo che ci sono ‘robe da maschi’ e ‘robe da femmine’, anche attraverso molte pubblicità veicolate dai media, fino al piano materiale che vede la disparità salariale nel mondo del lavoro, la sacralizzazione del ruolo materno e la narrazione distorta della violenza maschile sulle donne e la violenza di genere. La buona notizia è che sono aumentati gli anticorpi: realtà come la vostra si sono moltiplicate, ci sono molti luoghi, soprattutto virtuali e nei social, nei quali si fa controinformazione transfemminista, o progetti nelle facoltà di comunicazione anche di università mainstream che si pongono il problema di come combattere gli stereotipi. La questione, da sempre dibattuta anche nei movimenti femministi, resta l’impatto: come riuscire a parlare alla pancia del paese? Perché ancora molte donne sono portatrici sane di cultura patriarcale e la riproducono nelle loro relazioni? Vale anche per le giornaliste e per chi lavora nel mondo della comunicazione in generale, questo è un fatto ed è ancora un problema aperto».
Alla luce del recente caso Phica e rifacendomi ad un suo articolo per inGenere dove tratta di violenza digitale sulle donne le chiedo: col diffondersi dell’AI (Intelligenza Artificiale) e dei nuovi modelli di comunicazione quali sono le sfide che ci troviamo ad affrontare?
«Una grande sfida, perché l’AI va governata e educata, se a farlo sono solo uomini, o donne che non hanno messo in discussione il patriarcato, tenderanno a riprodurre anche lì gli stereotipi di genere. Per questo è necessario formare e dare competenze su questi temi a chi la progetta ma anche a chi la utilizza. Inoltre, l’altro problema dell’AI è la creazione di fake news che si diffondono velocissimamente e non c’è dubbio che senza un cambio radicale della cultura di partenza, molte di queste fake news insistono sugli stereotipi e modelli di genere, così come possono aumentare i casi di cyberstalking e molestie online veicolate dai nuovi media. Nell’ambito giornalistico, la formazione su questo sta aumentando, e andrebbe fatta partire in generale dalla scuola».
Esuliamo dalle domande più classiche perché lei è anche apicoltrice. Ci spiega qual è il legame tra apicoltura e rappresentazione femminile? In che modo la narrazione delle api è una cartina tornasole su genere e conoscenza contemporanea?
«È un legame antico, perché le api ci sono da prima di noi e molto probabilmente sopravviveranno ad una nostra eventuale estinzione. Sono da sempre state “usate” dalla cultura umana per rappresentare la femminilità stereotipata e viceversa sono state interpretate erroneamente secondo le categorie umane, da qui le api simbolo di donne operose, vestali della casa fino a parlare delle api come di una “monarchia democratica”. L’alveare è un sistema complesso che ci ostiniamo a leggere con i nostri modelli, ma funziona come un super organismo che noi umani non sappiamo replicare (forse per questo ne siamo in qualche modo invidiosi oltre che affascinati). Racconto sempre un aneddoto: si è dovuto aspettare il Seicento, il microscopio e il biologo ed entomologo olandese Jan Swammerdam per avere l’evidenza scientifica che a governare la comunità apistica fosse una femmina e non un maschio, fino a quel momento era scontato fosse un re e non fosse mai una regina. Non fosse mai che a comandare fosse una femmina! Peccato che Swammerdam vide le ovaie sotto la lente e di ape regina si trattava. Ma il suo ruolo non è quello né di una monarca illuminata né, per arrivare alla cultura contemporanea e al simbolico che veicola, una dirigente despota che soffrirebbe di “sindrome da ape regina”, termine usato dalla psicologia per indicare una capa che maltratta le altre donne. Non esiste questo fenomeno nel mondo delle api, l’ape regina ha una funzione diversa e risponde alla collettività senza la quale neanche nascerebbe. E qui mi fermo, ma potremmo parlarne per ore».
Non te ne andare, anche per questo mese ci siamo segnate le letture più interessanti e qualche nuova uscita.
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