Rumore #7
Qualcosa si sta muovendo nella formulazione di una legge che garantisca il suicidio assistito, ma la bozza depositata in Senato ha diversi problemi: Matteo Mainardi di ALC ci spiega quali sono.
La danza macabra del fine vita
di Sofia Centioni
In Italia, il suicidio medicalmente assistito è un diritto che esiste senza esistere. Costituzionalmente, infatti, è solo desumibile: come scrive la stessa associazione Luca Coscioni sul suo sito, “la Costituzione riconosce che nessuno può essere obbligato ad alcun trattamento sanitario contro la propria volontà e prevede altresì che la libertà personale è inviolabile”. Per questo, la legalità del suicidio assistito è stata sancita solo in tempi relativamente recenti, grazie a due sentenze della Corte Costituzionale di cui parleremo a breve.
La sua soggettività a interpretazione è, peraltro, parte del motivo per cui il dibattito sul fine vita si trascina ormai da anni, a prescindere dal colore politico dei governi che si sono succeduti. In questa danza macabra di iter infiniti, continui rimandi, sentenze costituzionali e legge ordinaria (ancora inesistente), l’unica cosa certa è che accedere a una pratica di fine vita legale e sicura è oggi difficile, complesso e molto stancante.
In questi giorni sembra però che qualcosa si sia mosso: lo scorso 2 luglio, dopo anni di continui ritardi, il disegno di legge sul fine vita (in una nuova formulazione a firma Pierantonio Zanettin di Forza Italia e Ignazio Zullo di Fratelli d’Italia) è stato depositato in Senato e sarà portato in aula il prossimo 17 luglio. L’approdo della legge alle Camere è sicuramente un passo avanti importante: fino ad ora, infatti, il testo era stato discusso solo all’interno della commissione giustizia e affari sociali del Senato.
Tuttavia, a proposito di tempistiche, è possibile che questa improvvisa “accelerata” sia stata dettata da fattori esterni: il 5 giugno l’associazione Luca Coscioni aveva annunciato che avrebbe fatto partire una raccolta firme (che potete firmare qui) per una proposta di legge di iniziativa popolare (che si discosta da quella della maggioranza). La coincidenza, anche se non ha trovato conferme, è abbastanza singolare: la campagna per raccogliere le firme è cominciata il 26 giugno – e terminerà il 15 luglio –; esattamente un giorno prima, diverse testate hanno iniziato a diffondere indiscrezioni e dettagli sulla bozza in questione. Dopo più di due anni di silenzio sul tema.
«Lo scopo di questa legge di iniziativa popolare è di non far abbassare sempre di più il livello del dibattito su questi temi – spiega Matteo Mainardi, responsabile delle iniziative sul fine vita dell’associazione Luca Coscioni –. Tutte le proposte di legge a cui abbiamo assistito in questi anni erano molto limitative, sia quelle provenienti da destra che da sinistra. Il fatto è che tutti i partiti hanno paura di affrontare seriamente la questione del suicidio assistito, perché non vogliono calpestare i piedi alla componente cattolico-clericale che c’è in ogni partito. Per questo, come associazione Luca Coscioni non abbiamo mai chiesto esplicitamente una legge nazionale, perché il rischio è di fare dei passi indietro».
Lo stato attuale del fine vita in Italia
Prima di analizzare questo valzer tra sentenze costituzionali e legge ordinaria, però, è necessario un chiarimento: la facoltà di accedere al suicidio medicalmente assistito esiste; ciò che manca è una legge che regoli le modalità e le tempistiche per accedere a queste pratiche a livello nazionale (quella su cui stanno lavorando con il disegno depositato in Senato).
Un aspetto peculiare di questa storia è che, nonostante l’assenza di una legge nazionale, a febbraio 2025 la Regione Toscana ne ha approvata una regionale. «Anche in questo caso tutto è nato da una proposta di legge popolare presentata dell'associazione Coscioni – spiega Mainardi –. Una legge che, tra l’altro, abbiamo depositato in tutte le altre regioni, ma che la Toscana è stata l’unica ad avere il coraggio di approvare».
La scelta della regione Toscana è stata possibile dal momento che, specifica l’attivista, le Regioni hanno competenza concorrente con lo Stato nelle materie di natura sanitaria: «E, dato che la Corte Costituzionale aveva formalizzato il diritto, la Toscana non ha di fatto creato nulla; ha solo approvato una legge per organizzare le modalità attraverso cui esercitare quel diritto. Il governo, tra l’altro, ha impugnato la legge regionale, che sarà oggetto di discussione alla Corte Costituzionale. Trovo però oggettivamente difficile pensare che sarà bocciata».
In generale, comunque, ricorrere al suicidio medicalmente assistito è ancora un’impresa. In linea teorica, bisognerebbe semplicemente fare una richiesta alla direzione generale della propria Asl, che dovrebbe subito individuare la commissione multidisciplinare competente e mandarla a casa della persona che ha fatto richiesta. Nei fatti, l’iter non è quasi mai così semplice e lineare: «La maggior parte delle volte le Asl non rispondono o le procedure si bloccano. In Friuli Venezia Giulia, per esempio, si è arrivati a una sanzione di 500 euro per ogni giorno di ritardo nella valutazione delle condizioni di salute dei pazienti – racconta l’attivista di ALC –. Questo genera dei rallentamenti, prima che i medici vengano anche solo identificati passano mesi. Dopo altri 4 mesi circa c’è la visita a casa della persona, poi altri due mesi prima che i medici mandino la relazione, poi altri tre mesi prima che il comitato etico si esprima, e così via. Alla fine dei conti si arriva a parlare di anni: si tratta ovviamente di tempistiche insostenibili».
Per questo motivo, per andare avanti con l’iter diverse persone sono costrette a rivolgersi ad avvocati o all’associazione, procedendo con denunce o diffide. Spesso si finisce in tribunale, a volte i malati sono costretti a coinvolgere familiari con cui magari non hanno più rapporti. Tra l’altro, aggiunge Mainardi, «Spesso ci si rende conto che rendere pubblica la propria storia può accelerare i procedimenti, ma non sempre si ha la forza di esporsi. Tutto ciò non fa che rendere il percorso molto più tortuoso per persone già malate e sofferenti».
Per esempio Martina Oppelli, architetta triestina di 49 anni, soffre di sclerosi multipla dall’inizio degli anni Duemila, patologia che oggi l’ha resa tetraplegica. Il suo caso rende bene l’idea di quanto sia estenuante l’iter anche per chi si trovi in condizioni fisiche al limite. Oppelli da diverso tempo convive con una limitazione motoria gravissima e con dolori e spasmi diffusi poco controllati dalla terapia che assume. Da qualche tempo a causa della sua condizione ha scelto di rendere pubblica la malattia attraverso il lavoro dell’associazione Luca Coscioni, che la assiste nel suo percorso. Lo scorso 4 giugno la donna ha ricevuto il terzo rifiuto da parte dell’Azienda sanitaria universitaria Giuliano Isontina di Trieste, che le ha negato di poter attivare la procedura di verifica delle condizioni per accedere al suicidio medicalmente assistito: secondo l’Asl Martina non avrebbe alcun trattamento di sostegno vitale in corso, e il suo caso mancherebbe quindi di una delle quattro condizioni che rendono ammissibile l’accesso al suicidio assistito.
Le criticità della nuova proposta di legge
Nel 2019, a seguito del caso di Dj Fabo, la Corte Costituzionale ha infatti stabilito che il suicidio assistito è ammissibile quando sussistono quattro condizioni:
la patologia è irreversibile,
la persona soffre in modo intollerabile,
ha piena capacità di autodeterminarsi,
dipende da trattamenti di sostegno vitale.
Nel 2024 la Corte si è nuovamente espressa sull’ultimo punto, allargandone i parametri: adesso, i trattamenti di sostegno vitale comprendono per esempio anche l’assistenza continuativa da parte di un caregiver, oppure le terapie farmacologiche.
Ciononostante, «il testo che stanno discutendo in aula parla di “trattamenti sostitutivi di funzioni vitali”, che di fatto non prende in considerazione il secondo pronunciamento della Corte. Vuol dire che, per accedere al trattamento, la persona deve essere attaccata a dei macchinari». Questo, continua Mainardi, è decisamente problematico, «perché ridurrebbe la platea degli aventi diritto, creando una discriminazione enorme: c’è, per esempio, chi rifiuta questi trattamenti, mentre i malati oncologici non vengono quasi mai attaccati a dei macchinari, se non in momenti estremi, eppure la sofferenza è la stessa».
Un altro requisito su cui interviene il disegno di legge è quello delle “sofferenze intollerabili”, che per la Corte Costituzionale possono essere di natura fisica o psicologica. «Il testo parla invece di sofferenze fisiche e psicologiche, prevedendo dunque che si verifichino entrambe le condizioni», spiega Mainardi. «Le persone che abbiamo seguito come associazione, però, non avevano alcuna patologia psicologica, solo fisica: anche in questo caso si rischia quindi di creare delle discriminazioni».
Le persone che vorranno accedere al suicidio medicalmente assistito, inoltre, non potranno rifiutare di sottoporsi alle cure palliative, dal momento che il disegno di legge le rende obbligatorie. Queste cure, specifica Mainardi, «sono un presidio fondamentale e importantissimo, ma a volte rischiano di avere effetti collaterali importanti. Dj Fabo, per esempio, a un certo punto della sua patologia decise di interrompere perché non lo rendevano lucido: non riconosceva la madre, non riconosceva la fidanzata».
Un ulteriore aspetto fumoso del testo redatto in commissione parlamentare riguarda il ruolo dei comitati etici: attualmente, chi vuole accedere al suicidio assistito (oltre a dover ottenere una valutazione da parte di un comitato multidisciplinare di medici) deve avere anche un parere del comitato etico territorialmente competente, fornito da ogni Asl. «Il guaio è che il governo vuole scavalcare i comitati territoriali per creare un mega comitato nazionale e per di più di nomina governativa, quindi con tutte persone probabilmente contrarie a queste procedure. Stiamo parlando di un comitato con sede a Roma che quasi sicuramente non potrà spostarsi per tutta Italia per valutare i singoli casi e che quindi dovrà decidere senza aver conosciuto la persona in questione».
Non sono secondarie nemmeno le tempistiche per ottenere una risposta: «Al momento, la proposta prevede che possano passare quattro mesi prima di ricevere un responso, a partire dal momento in cui si fa richiesta. Ma è una tempistica che, spesso, le persone gravemente malate non hanno davanti a sé. Per fare un esempio: la Toscana, che ha da poco approvato la legge regionale in materia, fissa questo limite a 30 giorni».
Infine, ma sicuramente non per importanza, c’è l’aspetto che forse sta facendo discutere di più in questi giorni: il ruolo del Sistema sanitario nazionale. Il disegno di legge prevede infatti che il suicidio medicalmente assistito possa essere svolto solo all’interno di strutture private, e quindi al di fuori del Ssn – che avrebbe il solo compito di autorizzare il trattamento:
“Il personale in servizio, le strumentazioni e i farmaci di cui dispone a qualsiasi titolo il Sistema sanitario nazionale non possono essere impiegati al fine della agevolazione del proposito di fine vita”.
In tutto questo, il fatto che il testo sia arrivato in aula non assicura ovviamente nulla. «Probabilmente in queste settimane ci sarà un’accelerata per via della proposta di legge popolare e dei prossimi interventi della Corte Costituzionale, ma l’iter è ancora lungo – valuta Mainardi –. In tre anni sono riusciti al massimo a formulare il testo base; pensare che riescano ad approvarlo in due anni non è molto credibile».
In generale, ragiona Mainardi, l’approvazione di una legge sul fine vita sarebbe importante per tre ordini di motivi: «Si tratta in primis di una questione di principio: siamo liberi di autodeterminarci più o meno tutta la vita, non si capisce perché alla sua fine dovremmo essere privati di questo diritto. E poi, potrà sembrare paradossale, ma è anche una questione di contrasto ai suicidi: l'Istat ci dice che il 46%, quindi quasi la metà, dei suicidi hanno come movente la malattia. Molte di queste situazioni drammatiche e tragiche potrebbero essere evitate, se ci fossero vie legali per arrivarci». Questo ragionamento è rafforzato da un dato che potrebbe sembrare un ulteriore paradosso: la prospettiva del suicidio assistito allunga la vita delle persone malate. «Quando una persona ha il via libera a procedere, quasi sempre decide di non utilizzarlo subito: perché quell’estrema sofferenza, avendo la possibilità di dire basta in qualsiasi momento, diventa più sopportabile».
Infine, conclude l’attivista, una legge darebbe una risposta a chi non ha i requisiti per accedere al trattamento: «Una persona che chiede al Servizio sanitario nazionale di voler morire sta lanciando una richiesta d’aiuto estrema. Avere delle tempistiche chiare e rapide evita per prima cosa che quella persona “faccia da sé”. In secondo luogo, permette di valutare la situazione e di offrire tutte le alternative possibili a chi ne ha bisogno: maggior assistenza da parte del Comune o della Regione, cure palliative, terapie diverse, e così via».
Non te ne andare, anche per questo mese ci siamo segnate le letture più interessanti e qualche nuova uscita.
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