Rumore #3
C'è una parte dei movimenti transfemministi che non si sente più sicura ai cortei. Intanto, la giustizia italiana sta spingendo i centri antiviolenza sempre più fuori dalle aule di tribunale.
8 marzo di resistenza
di Nikol Ceola
La storia di questo spazio digitale, per noi, è la vera novità dell’8 marzo di quest’anno: questo progetto parte dal moto rabbioso che ci ha incendiate un anno fa e da cui sono nate sorellanza, coesione e progetti.
La storia di Cronache di rabbia è solo la versione infinitesimale di quel che accadde quando, nel 2016, si costituì Non Una Di Meno, il movimento che in questi nove anni ha animato le piazze ogni 8 marzo e ogni 25 novembre, giornata contro la violenza maschile sulle donne. Non Una Di Meno ha avuto una forza potentissima. Uno dei suoi primi slogan, “siamo marea”, descriveva al meglio cosa fosse quel movimento: un tenere insieme tante realtà diverse, dando degli obiettivi comuni nazionali ma lasciando che i nodi territoriali si autogestissero definendo pratiche e necessità locali. Un progetto di certo ambizioso ma, pur con tutte le difficoltà del caso, riuscito.
Le prime manifestazioni nel 2016 e 2017 attirano l’attenzione registrando anche numeri di un certo tipo. Ma l’esplosione vera avviene nel 2018, quando alle politiche vince la destra e il movimento è bravissimo a far ruggire la rabbia, a costruire il dissenso. Inutile provare a fare un riassunto di numeri, piazze e manifestazioni: sono troppe e sicuramente si tralascerebbe qualcosa di importante. Il ricordo più bello per chi scrive, per esempio, è la manifestazione del 30 marzo 2019 a Verona, organizzata contro il Congresso Mondiale delle famiglie che vedeva il protagonismo dei peggio cattofascisti che poi avremmo imparato, negli anni a venire, a conoscere tanto bene: Pillon, Meloni, Orbán e tutta la pletora antiabortista di destra. Oltre ai numeri mastodontici di quella manifestazione rimane il ricordo dell’energia che riempiva l’aria. Furono tre giorni di dissenso, costruito talmente bene da lasciare senza fiato e la rabbia, quella che faceva bruciare lo stomaco, aveva trovato la giusta via d’uscita, sfogata nelle piazze contro una cloaca di potere maschile che ci voleva silenti, ancelle, solo corpi con utero per riprodurre il capitale.
Nove anni dopo l’inizio, NUDM esiste ancora e organizza come sempre l’8 marzo e il 25 novembre, ma anche molto altro. I nodi territoriali forse sono un po’ meno dell’inizio, ma questo è fisiologico: alcuni hanno cambiato nome, ma gli obiettivi a cui guardano sono i medesimi. Anche le persone sono quasi sempre le stesse e forse ogni tanto c’è qualche timido segnale di comprensibile stanchezza. Lo scenario politico è nettamente peggiorato rispetto agli anni che furono: la guerra in Ucraina, il genocidio palestinese, il governo più fascista della nostra storia recente. Sfide pesanti, giocate spesso sui corpi delle donne. Il movimento transfemminista è fondamentale, perché al governo c’è chi perpetra un’idea di donna come essere incasellato su routine societarie che abbiamo rigettato anni fa. Tenere alto il dissenso è l’unico modo per non lasciare il campo completamente sgombro. Eppure un po’ di stanchezza sembra esserci e, forse, nelle città in cui la politica di movimento è protagonista importante si vede in modo lampante.
A Bologna, il blog della Rete Sotterranea Transfemminista pubblica comunicati al vetriolo che denunciano molestie all’interno degli spazi sociali, coperte dai compagni. La prima denuncia avviene in occasione del 25 novembre scorso e il marasma che scatena è importante: si parla di soggetti specifici, di personale che è anche politico, di intersezioni e relazioni prima di tutto amicali che traballano furiosamente. Non è nelle intenzioni di chi scrive giudicare la questione in sé, anche perché è fin troppo composita e si rischiano solo danni non esplicativi. È però interessante registrare che nell’ultimo comunicato della Rete la manifestazione dell’8 marzo viene definita rituale e performativa. La tristezza che assale nel constatare che una parte di compagne non si sente rappresentata dalla piazza che è anche sua è un sentimento politico.
Viene da chiedersi, in fede, se anche il movimento transfemminista sia solito cadere nelle separazioni interne alla sinistra, da quella parlamentare a quella di movimento. La risposta parrebbe essere un mesto sì, anche se qui la posta in gioco non riguarda tanto dissertazioni sulla teoria marxista o prese di posizione più o meno favorevoli a riarmi e manovre finanziarie, bensì questioni quali violenza all’interno degli spazi liberati, giustizia trasformativa, pratica anticarceraria. Sono temi caldi.
La nozione di giustizia trasformativa si lega direttamente allo strumento dei call out, definiti da Adrienne Mae Brown nel saggio Per una giustizia trasformativa come "denunce informali" che avvengono all'interno di determinati contesti politici di movimento. I call out, scrive Brown, si articolano sostanzialmente nell'isolamento e/o allontanamento di questi soggetti dalla rete e dagli spazi politici che frequentano. L'autrice sostiene l'importanza di liberarsi da questa pratica di esclusione, cercando invece pratiche alternative per avviare un processo di trasformazione e guarigione di chi abusa. Sono strumenti complicati e fare questi ragionamenti è difficile, perché presume una buona dose di consapevolezza e dinamiche di gruppo non omertose: all'interno degli spazi, dove i rapporti politici sono prima di tutto amicali e personali, si riscontra spesso uno spalleggiamento nel negare le violenze di cui occorre liberarsi per intraprendere davvero una pratica di giustizia trasformativa.
Ancora una volta, non è questo il luogo e il modo di essere giudici sulle diverse modalità di fare attivismo, e sui pro e contro di giustizia trasformativa si può dibattere a lungo. Ciò che è interessante registrare ai fini di questa analisi su piazze e 8 marzo è che qualcuna non si sente accettata, perché teme di trovare accanto a sé al corteo un molestatore che si erge a maschio decostruito e femminista e qualcun altra considera l’esclusione una pratica poco orizzontale, più vicina a un’idea carceraria della risoluzione del conflitto che a una libertaria.
Certo, forse un po’ di fiacchezza c’è, queste questioni fiaccano lo spirito. Perché sono storie di abusi che ci piacerebbe relegare al mondo “normale” e non a quello “liberato” degli spazi e dei movimenti. Si tratta comunque di una buona dose di realtà disincantata che potrebbe essere un ottimo punto di ripartenza politica: come ricostruirsi e da dove ripartire dopo aver fatto tremare le fondamenta di un luogo e le sue relazioni?
Su questo interrogativo tutt’altro che semplice, un’ultima nota positiva su questa giornata parla proprio di unità: la gran parte dei movimenti vicini alla galassia NUDM e a quella più generale del transfemminismo si è unita nella risposta indignata al comunicato di Arcilesbica in occasione della giornata internazionale. Arcilesbica, ormai settata da anni su posizioni trans-escludenti, ci ha tenuto a ribadire la propria idea di donna, intesa in modo essenzialista come soggetto-con-vagina. Per giustificare la loro transfobia hanno scomodato persino Monique Wittig, che evidentemente hanno letto male. Il grido che si è levato all’unisono è stato di coesione e lotta a fianco delle sorelle trans, senza le quali il movimento semplicemente non esisterebbe. E su questo, sì, siamo tuttə d’accordo.
Evviva l’8 marzo di lotta. E soprattutto, di sorellanza.
Se i centri antiviolenza rimangono fuori dai tribunali
di Ylenia Magnani
Nelle aule di giustizia italiane, di recente, la sensazione è che si stia andando a consolidare un precedente estremamente pericoloso. Il linguaggio impiegato da alcune corti, infatti, sembra parlare direttamente a noi tutte, tra stereotipi violenti e vittimizzazione secondaria. Niente di nuovo, dirà qualcuna, di queste cose siamo a massima capienza da tempo; ma l’impiego di un certo linguaggio piuttosto che un altro non è mai casuale, soprattutto quando parliamo di femminicidi e siamo dentro a un’aula di giustizia.
Lo scorso gennaio è uscita su tutti i giornali la notizia relativa a un caso di doppio femminicidio avvenuto nel modenese. La Corte di Assise di Modena ha condannato a trent’anni di carcere Salvatore Montefusco, colpevole di aver ucciso la moglie Gabriela Trandafir e la figlia di lei, Renata. Nella motivazione i giudici mettono nero su bianco la ragione che ha spinto la Corte alla condanna a trent’anni e non a quella per l’ergastolo: i giudici sono infatti giunti a ritenere «le attenuanti generiche equivalenti alle residue aggravanti contestate al Montefusco, in ragione della comprensibilità umana dei motivi che hanno spinto l’autore a commettere il fatto reato». Non sapremo mai cosa la Corte di Assise pensi possa significare fucilare due persone mossi da una comprensibilità umana, e rimarremo con questo quesito. Quello che sappiamo è che la resistenza a riconoscere la brutalità come brutalità, la violenza come violenza totale e definitiva ci allontana un pezzo alla volta dal fare giustizia.
Di recente, anche in Corte d’Assise a Bologna ci sono stati altri casi di femminicidio che raccontano uno scollamento esistenziale dal riconoscimento della violenza come tale. Giampaolo Amato, ex medico della squadra di pallacanestro Virtus, è stato condannato lo scorso ottobre alla pena dell’ergastolo per aver avvelenato la moglie Isabella Linsalata, anche lei dottoressa, e la suocera, Giulia Tateo. In questo caso, la motivazione non ha lasciato spazio a interpretazioni, la condanna è stata totale, non è stata sollevata nessuna “giustificazione”.
Quello che è successo in questo caso è che, all’inizio del processo, i centri antiviolenza e le associazioni della città che combattono la violenza maschile non sono state accettate come “parti civili”. Nel processo penale, il codice prevede quella che tecnicamente viene chiamata “costituzione di parte civile”, che nei fatti consente a un soggetto danneggiato dal reato (quindi titolare di un interesse legittimo nei confronti del reato commesso e della condanna dell’imputato, come lo sono le associazioni) di entrare nel processo, di esserne parte e quindi intervenire. Nel caso Amato, la richiesta mossa dall’associazione Unione donne italiane (Udi) non è stata accolta.
Lo stesso avviene oggi in un altro femminicidio, quello della vigilessa Sofia Stefani, uccisa dall’ex Comandante della polizia locale di Anzola dell’Emilia, Giampiero Gualandi, imputato per omicidio volontario. Udi, Casa delle donne, Sos Donna, Mondo Donna e associazione Malala sono state escluse dalla Corte d’Assise di Bologna che non ha accolta la loro richiesta di costituzione di parte civile.
«Anche in questo caso la motivazione apparente che ci viene data è la stessa: che non si tratti di femminicidio perché non sono individuabili elementi di violenza manifesta – spiega Rossella Mariuz, avvocata dell’associazione Udi –. Ma Stefani è stata uccisa da un colpo sparato dall’arma di servizio di Gualandi. Le ha sparato in volto, come fa a non bastare? Non possiamo pensare di poter riconoscere una violenza come manifesta solo nei casi in cui ci siano violenze inaudite e brutali». Secondo quanto emerso dalle indagini, tra i due c’era una relazione sentimentale. Tale relazione, tuttavia, esisteva all’interno di un’evidente asimmetria di potere: lui comandante di polizia, suo responsabile, lei precaria con un contratto a termine appena scaduto.
«Tutti questi elementi erano emersi già durante le indagini. La Procura, però, ne ha utilizzati veramente pochi formulando l’accusa a Gualandi, quando invece avrebbero potuto costituire grosse aggravanti», spiega l’avvocata. Ma sono proprio questi gli indicatori che urlano femminicidio e che solo le associazioni sono in grado di mettere nero su bianco durante le udienze. Nonostante l’impegno di alcuni sindacati di categoria, la formazione obbligatoria alla violenza di genere non viene seguita in larga parte né dai magistrati né dai giudici. Questo si traduce nel modo in cui vengono poste le domande, vengono rafforzati stereotipi di genere e viene utilizzata la vittimizzazione secondaria nel raccontare il contesto e le abitudini della persona uccisa. Avviene continuamente, in molti più casi rispetto a quelli che vengono raccontati dalla cronaca.
Ripulire i processi in questo modo li riduce a questioni private, neutre, spoglie di un proprio significato sociale e politico, sulle quali pare si voglia intervenire con gli strumenti impiegati in qualsiasi altro processo per rapina, truffa o estorsione. La ministra per le pari opportunità e la famiglia, Eugenia Roccella, ha comunicato però ieri, 7 marzo, che il femminicidio diventerà in Italia reato autonomo e sarà punito con la pena dell’ergastolo. Il disegno di legge è passato per ora solo dall’approvazione in Consiglio dei ministri, quindi la strada è ancora lunga. Nel frattempo, l’impegno deve rimanere sui processi aperti, su quelli in cui il femminicidio "va provato", dalle Procure e dalle parti civili.
«Le sentenze e i processi sono certamente giudiziari, ma sono significativi da un punto di vista anche culturale – spiega Laica Montanari, presidente del Coordinamento dei centri antiviolenza dell’Emilia-Romagna –. La nostra partecipazione contribuisce a un cambiamento che è anche culturale e che serve a riconoscere l’esistenza della violenza all’interno degli stessi tribunali. È compito nostro, spesso, dare contesto ai comportamenti della vittima, dare una lettura che – se fosse lasciata solo ai tribunali – ci riporterebbe spesso alla vittimizzazione secondaria: “conduceva una vita sregolata, era libertina e questo era stato motivo di gelosia”. Questi messaggi ci riconducono a considerare ogni femminicidio non come un fatto “di interesse pubblico”, bensì come l’esito di questioni puramente attinenti alla sfera domestica. Così non è: la violenza di genere è pubblica, non è un conflitto degenerato nel privato, è il frutto di una disparità in termini di rapporti di potere. Rapporti ancora oggi così squilibrati da avere una rilevanza che è a tutti gli effetti collettiva, e che deve essere riconosciuta come pubblica».
Non te ne andare, anche per questo mese ci siamo segnate le letture più interessanti e qualche nuova uscita.
I consigli di Cronache di rabbia:
Come stanno le librerie indipendenti? L’articolo di Greta Biondi su Zero Bologna intervista la presidente dell’Associazione Alta Marea, che gestisce la Libreria delle Donne a Bologna.
La nuova geografia della violenza giovanile: oltre il 50% dei giovani ha subito violenza, il digitale amplifica il fenomeno, di Sara Paolella su Scomodo.
L’arte della gioia, serie tv diretta da Valeria Golino tratta dall’omonimo romanzo di Goliarda Sapienza. Ogni venerdì su Sky e Now.
Anora's American Dream, di Rayne Fisher-Quann. Dopo il controverso trionfo agli Oscar di Anora, Fisher-Quann riflette sull’intersezione tra classe, oppressione patriarcale, sogno americano e relazioni eterosessuali.
Outrage as pregnant prisoners 'forced to wear handcuffs in labour', di Channel4 News.