Rumore #1
L'ordine dei Giornalisti ha approvato un nuovo codice etico per prevenire le molestie nelle scuole di giornalismo (e poteva essere fatto meglio). Poi parliamo di Vermiglio, il film di Maura Delpero.
Molestie e giornalismo: non saranno i Codici a salvarci
di Cronache di Rabbia
Illustrazione di Claudio Capellini
Il 2024 si conclude con una notizia positiva sul fronte della lotta contro la violenza di genere, fenomeno tristemente diffuso anche negli elitarissimi luoghi di produzione del sapere italiano, mondo dell’informazione e dei media compreso.
Per la prima volta, lo scorso dicembre, l’Ordine dei giornalisti ha infatti inaugurato un Codice etico finalizzato alla prevenzione delle molestie nelle scuole di giornalismo. «Era ora», si penserà tirando un respiro di sollievo. «Bella notizia di fine anno». Sennonché, il passo avanti compiuto dall’ente di categoria dei giornalisti e delle giornaliste italianә non può essere propriamente interpretato come il frutto di un’azione morale spontanea. Più che rappresentare una presa di coscienza della necessità di comprendere come e perché molteplici forme di relazione sessista inquinino l’ambiente di tantissime redazioni italiane, infatti, la scelta del Consiglio nazionale dell’ordine pare dettata da ragioni di più pragmatica “realpolitik”.
Il fatto è che, lo scorso autunno, le scuole di giornalismo sono state investite da uno spiacevolissimo polverone mediatico, sollevato dall’inchiesta di IrpiMedia emblematicamente intitolata “Voi con queste gonnelline mi provocate”. L’inchiesta, condotta dalle giornaliste Francesca Candioli, Roberta Cavaglià e Stefania Prandi, ha raccolto testimonianze di molestie e discriminazioni da 239 studentesse e studenti relative agli ultimi dieci anni, dimostrando come ben un terzo delle studentesse abbia subito una qualche forma di molestia verbale o sessuale in master o redazioni giornalistiche.
Ma facciamo un passo indietro. Le scuole di giornalismo in Italia oggi sono dieci e servono, scrive l’Ordine, a “fornire un accesso al professionismo” alternativo, svolgendo il praticantato all’interno di una scuola. L’Ordine non specifica, però, che questo tipo di accesso non rappresenta più un’alternativa, bensì quasi un obbligo, vista la crisi in cui il mondo dell’editoria versa da più di un decennio. Il praticantato all’interno di un master permette di sostenere l’esame di Stato per diventare professionista, ma superato l’esame di Stato non fai giornalismo: sei “solo” unә giornalista. Ancora prima di trovare un lavoro decentemente retribuito, a dire il vero.
In ogni caso, le tre giornaliste hanno messo in luce come in quasi tutti i master e per dieci anni – ovvero quasi un terzo della storia di vita di queste scuole – tante persone abbiano sofferto per le molestie subite. Di più: hanno dimostrato una stortura generale di questo intricato equilibrio tra poteri che, sebbene rappresenti una via privilegiata per diventare lavoratori “del mondo intellettuale”, non sa spiegarsi fino in fondo perché questa forma subdola di violenza prenda piede anche in quei luoghi “illuminati” dove “l’amore per il sapere” e la “critica razionale dell’attualità” rappresentano l’ideale a cui ispirarsi.
Ora, sarà forse malizioso pensare che il Codice etico rappresenti una risposta superficiale al problema, che voglia solo dimostrare – dopo l’uscita dell’inchiesta – che la violenza di genere è un tema di interesse che non lascia insensibili. Del resto, è lungo una pagina e mezza ed è composto da otto articoli, che ricordano più che altro il diffuso sgravio di coscienza annuale che è la lista dei buoni propositi per l’anno nuovo.
Il fatto, però, è che la sostanza di questo Codice si concentra più sulla severità dei limiti posti per arginare la violenza, piuttosto che sulla creazione di corsi, di seminari o di una sacrosanta terapia di gruppo per tematizzare l’origine peccaminosa del patriarcato (si fa per ridere, ma dalla terapia all’esorcismo è un attimo).
Esibendo un lessico burocratico che fa capo al mondo dei “divieti”, infatti, l’Ordine si preoccupa soprattutto che tutti siano intimoriti da comportamenti sessisti sospetti e pronti alla loro denuncia, arrivando a vietare la comunicazione interpersonale. L’organizzazione di eventuali corsi formativi seri, invece, che magari sensibilizzino studenti e tutor sull’origine culturale e economica della discriminazione di genere, viene lasciata alla “responsabilità e autonomia” delle singole Università.
L’elemento principale che, secondo l’Ordine, riuscirebbe a contenere i danni è sostanzialmente uno: la limitazione del rapporto insegnante-studentә al solo ambito “didattico”, precludendo la possibilità di parlare privatamente per telefono. Questo porta a due considerazioni; la prima è che la messaggistica è assai diffusa nelle redazioni, e il limite di questa forma di comunicazione potrebbe avere una pesante ricaduta sulla velocità e sulla qualità del lavoro giornalistico.
La seconda è più che altro una sensazione: sembra quasi, infatti, che l’invito alla denuncia “immediata” – unito al veto posto sulla comunicazione – tentino di circoscrivere i danni di un comportamento violento che pare inconcepibile prevenire alla radice, neanche fosse iscritto nella natura umana. Della serie: «Togliamo loro i telefoni, per carità, sennò ci casca il morto», e anzi «Teniamoci tuttә d’occhio, sospettosi, come se in una redazione la fiducia non fosse un elemento importante. Ma proporre un’educazione alternativa, in momenti di crisi come questo, proprio non si può fare».
La creatività per pensare a un’alternativa reale, del resto, è stata esaurita dalle esigenze del lavoro: il master come alternativa di accesso alla professione va bene, perché i giornali sono in crisi ma non ci si può permettere di perdere risorse; un sistema educativo nuovo, invece – uno che metta in discussione quelle pratiche di relazione e di “produzione del sapere” che, pur sembrando naturali, sono in realtà prodotto di rapporti di potere squilibrati – è troppo impegnativo, quasi sacrilego. Un po’ come nominare il patriarcato.
È arrivato il momento di pensarci, però, alla fine del 2024. Anche perché, come si intuisce dalla stessa inchiesta di Irpi, in cui l’identità delle intervistate rimane anonima per tenerle al sicuro, il sistema della prevenzione basata sull’irrigidimento delle relazioni e sulla denuncia spesso fallisce. Nonostante tutto, infatti, nessuna denuncia formale è mai partita dopo l’uscita dell’inchiesta.
E questo, se alla buona volontà di cambiare le cose si accosta anche una consapevolezza dell’asimmetria nelle relazioni di genere, non è difficile da comprendere: le “vittime” che denunciano – se lasciate sole da un sistema culturale che non le protegge a priori – hanno paura di non essere credute, di essere silenziate, di perdere il lavoro, di rimanere sole, di aver contribuito a creare quel disagio. Questo succede ed è sempre successo, spesso e anche nel mondo intellettuale italiano; ed è difficile pensare che secoli di atteggiamenti discriminatori scivolino addosso senza qualche lezione su cosa significa, davvero, la violenza di genere.
Vermiglio di Maura Delpero, tra Oscar e periferie del cinema
di Chiara Scipiotti
Il 17 gennaio arriverà l’annuncio delle candidature definitive ai premi Oscar 2025 e l’Italia scoprirà infine se Vermiglio di Maura Delpero sia stato incluso nella cinquina finale per il Miglior film straniero.
Ambientato nel 1944 nell’eponimo paese trentino, Vermiglio racconta di come la quotidianità di una famiglia sia sconvolta dall’arrivo di Pietro (Giuseppe De Domenico), un soldato siciliano in fuga dalla guerra. Quando il capofamiglia (Tommaso Ragno), austero insegnante del paese, decide di accogliere Pietro sebbene sia un disertore, il ragazzo fa timidamente conoscenza delle sue figlie, tra cui Lucia (Martina Scrinzi), di cui si innamora. Nonostante i due co-protagonisti maschili e la gerarchia patriarcale del nucleo familiare, la prospettiva nel racconto in Vermiglio è esclusivamente femminile e continua, in tal senso, il lavoro iniziato da Delpero nel 2019 con Maternal.
Vermiglio è stato, peraltro, candidato ai Golden Globes come Miglior film in lingua straniera; non ha vinto, ma ha incassato diversi premi in altri festival, tra cui il Leone d’argento all’ultima edizione della Mostra del cinema di Venezia. L’opera viene spesso qualificata dai media come “opera seconda” di Delpero che, in realtà, ha esordito nel 2005 come documentarista e si è solo recentemente dedicata al racconto di finzione. Al di là dei riconoscimenti già ottenuti dal film, però, un aspetto interessante di questa potenziale candidatura è lo spunto che offre per una riflessione più ampia sul cinema femminile italiano.
La prima considerazione riguarda il suo rapporto con il pubblico americano: sui settantuno film proposti dall’Italia per l’Oscar al miglior film straniero, a partire dal 1948 Delpero è la quinta regista ad essere proposta dall’Italia, dopo Lina Wertmüller (Pasqualino Settebellezze nel 1977 e Notte d'estate con profilo greco, occhi a mandorla e odore di basilico nel 1987), Francesca Archibugi (Il grande cocomero, 1994), Wilma Labate (La mia generazione, 1997) e Cristina Comencini (La bestia nel cuore, 2006). A partire da queste proposte, solo Wertmüller nel 1977 e Comencini furono poi effettivamente candidate in cinquina, senza però vincere.
Questa statistica è naturalmente connessa alla mancanza di uno sguardo femminile diffuso e affermato nel cinema nostrano, almeno fino ai tempi più recenti. Secondo una ricerca presentata dall’osservatorio Women in Film, Television & Media Italia, nel 2023 è aumentato il numero delle registe i cui film sono riusciti ad approdare nelle sale cinematografiche, sebbene siano ancora solo 17 sui 100 primi incassi di nazionalità italiana. Tra i fattori che contribuiscono al successo in sala, sempre secondo il report, ci sono la riconoscibilità del nome alla regia e le tematiche percepite come di attualità. Esemplare, in tal senso, è stato il successo al botteghino di C’è ancora domani di Paola Cortellesi, uscito in concomitanza con il femminicidio di Giulia Cecchettin (risultato invece non eleggibile come Miglior film degli Oscar 2025, per questioni tecniche legate alla distribuzione americana).
La stessa Maura Delpero, in conversazione con Alice Rohrwacher, ha sottolineato come secondo lei il cinema in Italia sia diventato negli ultimi anni «un terreno di ibridazione, come se si fosse aperto alle periferie, in senso letterale e metaforico». Tra le “periferie” dell’arte visiva Delpero annovera il genere del documentario, meno soggetto a dinamiche di genere e di potere e che si è aperto alle donne «quando si è sdoganata l’idea che potesse essere considerato il ‘cinema del reale’».
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